bagnoli anno zero

Di Napoli Sergio Riccio ha provato a mettere in scena – sulla scena della fotografia – un racconto segnato, in prevalenza, dalle forme dell’arte: il barocco, il liberty, l’andirivieni di Dalisi lungo le frontiere mobili dell’architettura e della scultura. A questo racconto d’arte che, della città, è storia e leggenda, memoria e vita da vivere ogni giorno ha affrancato, più di recente, il lavoro su alcuni luoghi – penso, naturalmente, al Vesuvio – che, non meno del barocco e del liberty, ne disegnano un immagine seducente, e insieme perturbante.

Il Vesuvio che, nel rigore del bianco e nero, Riccio sorprende da ogni lato nelle forme inquiete del paesaggio è, di Napoli, certo, figura dell’immaginario e, a un tempo, della tradizione dell’arte e della poesia, da Leopardi, appunto, a Warhol.
Adesso nello splendore dell’arte, dell’architettura e della scultura, all’amore per il Vesuvio, cartolina a colori e icona, si accompagna la ricerca, asciutta e senza cedimenti, sulla dismissione di Bagnoli per dire di un vuoto e di un’assenza, dei luoghi e del paesaggio, del mare e del silenzio che vi regna.

BAGNOLI ANNO ZERO è, così, una riflessione sul silenzio e sulla sospensione che scandiscono il luogo, il paesaggio e lo spazio, abbandonato dagli uomini e occupato solamente da smisurati, muti, giganti: macchinari inerti che ora appaiono, piuttosto, come relitti o reliquie, una sorta di solitari ready made  nella dispersione del tempo.

Ma, insieme, BAGNOLI ANNO ZERO è un lavoro sulla memoria e, anzitutto, sull’occhio, sullo sguardo e la visione. Non è, del resto, un caso se alla fine del secolo scorso Riccio ha affidato alle pagine di una nota rivista, Technology Review, un suo lavoro dedicato all’occhio (agli occhi) e allo sguardo, alla loro differenza –  la schize su cui insiste Lacan tra oeil e regard – per sottolineare come la fotografia è, propriamente, quella tessitura di linguaggio che, oltre ogni ragionevole indizio, mette in problema, appunto, l’obiettività del vero e l’illusione che, attraverso la rappresentazione, possa restituirci, della realtà, unità di senso e significati definitivi.

BAGNOLI ANNO ZERO espone, si è detto, non il pieno ma il vuoto del racconto, le intermittenze e il silenzio del tempo, le dispersioni e la polvere degli eventi. Le cinquantadue fotografie, tutte di grandi dimensioni, assecondano i ritmi della perdita e dell’abbandono, aprono alla memoria e allo sguardo, all’idea, anzitutto, che la fotografia è messa in opera della visione ed esercizio dei suoi enigmi.

Del ritratto di Napoli, consapevole che non è riducibile ad un’immagine privilegiata, Riccio, nel corso del tempo, ha analizzato il pieno e il vuoto, le stratigrafie dell’arte e la superficie dei linguaggi, le figure e le icone che ne dicono il destino. Ora, radicalmente, con BAGNOLI ANNO ZERO sono il vuoto e l’assenza di luogo della drammaturgia dei segni, del bianco e del nero (e delle loro relazioni).

Kandinskij ci ha lasciato detto che lo zero –  in questo caso lo zero di BAGNOLI ANNO ZERO – è “legame fra silenzio e parola”. Intorno  a questo legame Riccio mi pare abbia costruito il suo discorso su Bagnoli: sul vuoto e il silenzio come l’altro della città segnata dalla vitalità del barocco e dall’icona del Vesuvio, energia e tensione, forza e esplosione ancora contenuta.

Corsi, di Napoli, Da Benjamin a Sartre, città porosa o in putrefazione (“La amo e ne ho orrore”, annota Sartre con un ossimoro), Sergio Riccio ci restituisce l’immagine e, insieme, l’ombra, la superficie dei linguaggi e il vuoto che li scava, le figure e le icone, onnivore e perturbanti, del barocco e del Vesuvio, e ora, di BAGNOLI ANNO ZERO.

Appunto, una riflessione estrema, BAGNOLI ANNO ZERO, sullo zero che è legame fra silenzio e parola: anzitutto, sguardo sul vuoto che, della città, di Napoli, è l’altro impensato.

Angelo Trimarco

(testo tratto dalla prefazione del volume “Bagnoli Anno Zero” di Sergio Riccio)