zerodisegno: madness is freedom

La follia – tema del RAVELLO FESTIVAL 2010 – non è nel design rappresentazione, racconto o messa in scena di una patologia. Forse non sono neanche esistiti – e non esistono – designer pazzi che come artisti o scrittori tardo ottocenteschi plasmavano le loro opere come oscure geografie interiori. In un altro senso, nella storia moderna e contemporanea del design non mancano episodi di “follia”: la figura e l’opera di Carlo Mollino, designer, architetto, urbanista, fotografo, e poi sciatore e aviatore, il prototipo di genio e sregolatezza; o anche quella del «più emotivo e impulsivo di tutti i costruttori di mobili del mondo», come Marcel Breuer amava definire Dino Gavina, crocevia dei fenomeni più significativi del design degli anni ’50, ’60 e ’70, snodo umano e culturale tra arte e design, l’inventore di ULTRARAZIONALE, ULTRAMOBILE, METAMOBILE.

Ma poi anche, Ron Arad, i fratelli Campana, Philippe Starck ed Ettore Sottsass il designer di Olivetti e, nello stesso tempo, colui che con le sue ricerche aprì la stagione del Radical, altro episodio di “follia” che produsse nel pensiero progettuale una utile, anche se utopica alternativa al Good Design, traendo la sua forza dal sapere ascoltare e accogliere le ragioni profonde dei turbinii di un’intera società attraversata dalle proteste studentesche. Follia nel design è il germe che si annida nel pensiero razionale progettuale, si manifesta come onda anomala e poi si acquieta dopo aver ceduto tutta la sua energia. La Follia, da Erasmo in poi, scrive Foucault, «è accolta nell’universo del discorso … viene raffinata, sottilizzata, ma anche disarmata», diventa «… una delle forme stesse della ragione … La vera ragione non è esente da ogni compromesso con la follia: al contrario, essa è obbligata a percorrere le vie che questa le traccia …».

ZERODISEGNO: MADNESS IS FREEDOM – la terza mostra da quando è stata introdotta con un’ acuta intuizione di Domenico De Masi la Sezione Tendenze-Design nel RAVELLO FESTIVAL – chiude una trilogia implicitamente dedicata a quella follia, né insensata, né distruttiva, che provvidenzialmente aiuta a ritrovare un senso perduto nei ciclici deragliamenti del pensiero creativo, e quindi anche del design. Diversità e Coraggio – i temi delle due passate edizioni su cui sono state concepite le mostre dedicate a Ferragamo (2008) e a Richard Ginori (2009) – sono i segni caratteristici della “Follia”, così come la Libertà. La libertà nei confronti dell’egemonia della tecnica e dell’utile; libertà nei confronti di visioni blindate del design di alcuni autorevoli maître à penser che non ne certificano la qualità e non ne ammettono altre forme di espressione se non rispondenti rigidamente alla logica “solida” che dal progetto porta dritta al consumo; libertà, interiore, perciò nei confronti delle imposizioni del marketing e degli uffici vendita; capacità di resistere alle seduzioni del consenso, all’ossequio dei progettisti verso gli imprenditori per produrre ad ogni costo, all’ossequio degli imprenditori verso le designerstar per salate autopromozioni.

Già molti anni prima di questa crisi globale dell’economia, in una “lezione di design” (una bella trasmissione televisiva della RAI), Ettore Sottsass, profeticamente, diceva «… stiamo entrando in un mondo di puro affarismo, di pura aggressività della società … non parlo di capitalismo, parlo di industria; cioè parlo di sistema di riproduzione. Se l’industria deve sopravvivere, deve vendere; per vendere deve creare i mercati, cioè deve costruire dei desideri. Per costruire dei desideri l’industria deve usare la pubblicità, cioè tutti i mezzi possibili e immaginabili per convincere le persone a desiderare il prodotto e a comperarlo … e in questo ambito deve anche, sempre per sopravvivere, non so perché, ingrandirsi sempre, guadagnare di più, aumentare il mercato … E questo insieme di condizioni mi sembra che sia arrivato ad uno stadio quasi manieristico … Il designer ormai non esce da queste condizioni. Punto e basta.

Il designer industriale. Tanto è vero che molte industrie, …, hanno scuole di design interne; cioè insegnano a giovani designer a essere quello che l’industria vuole che siano. Io questo design non lo faccio più”. E questo è il pantano in cui oggi sembra essere affondato un design autoreferenziale, senza vere idee (spesso), fatto di modelli che nelle fiere del mobile da anni diverse aziende si copiano a vicenda, apportando piccole modifiche per sfuggire al reato di contraffazione; un design lontano anni luce dalle straordinarie intuizioni di designer e imprenditori del dopoguerra che hanno inventato il miracolo italiano della piccola e media impresa e lo stesso Made in Italy. Follia è perciò anche liberarsi dalla prudenza che tutto vuole prevedere e che detesta l’incertezza; la follia vuole osare, invece, proiettandosi “insensatamente” in spazi sconosciuti al di là di ogni logica, di ogni possibile riscontro immediato, di ogni beneficio da raggiungere per sé. La follia è slancio, eroismo.

La follia come “amore” che non bada a quello che può succedere dopo, non persegue uno scopo se non l’amore stesso. È la follia di Stella Raphael del romanzo di Patrick McGrath, Asylum, ospite quest’anno del Ravello Festival, che diviene l’amante di un internato del manicomio criminale in cui sopravvive con il marito psichiatra. La proposta di Carlo Poggio e della sua Zerodisegno – con prodotti “normali” che fanno da contrappunto a quelli più innovativi – risponde un po’ a tutto questo. L’azienda, non mega, si lancia nella sperimentazione di nuove forme, nuovi materiali e nuove logiche produttive, coinvolge progettisti diversissimi tra loro, azzarda ibridazioni di linguaggi che fanno confluire in uno stesso prodotto arte e design, senza lasciarsi paralizzare dalla paura di sbagliare. Il caso di Gaetano Pesce con la collezione Nobody’s Perfect, in parte esposta in questa mostra, è emblematico.

E l’aspetto più singolare è senz’altro quello di prevedere in sede di esecuzione dei pezzi in resina il contributo “creativo” dell’operatore – che diventa così co-fautore – rendendo labili i confini del progetto e sperimentando lo spostamento ai margini nel processo produttivo della figura del progettista, che – solo apparentemente – perde qui potere. E Pesce, considerando l’idea di standard “quale immagine di un mondo omogeneo ormai superato”, spiega quali sono i punti attorno a cui ha inteso concepire il suo progetto: “La produzione ‘aleatoria’ come qualità filosofico-economica in grado di soddisfare i nuovi bisogni del mercato più avanzato e come mezzo per la sua dilatazione. Il ‘mal fatto’ come nuovo valore estetico caratteristico delle produzioni di domani. La manualità come mezzo di produzione attuale al servizio della serialità aleatoria.

L’uso e lo sviluppo della creatività delle maestranze nella fabbrica. I nuovi materiali come mezzo di avanzamento tecnologico umanizzato”.

La mostra è stata resa possibile grazie allo straordinario concorso di aziende come CARLOPOGGIODESIGN e di Luceplan – l’azienda storica di illuminazione vincitrice di diversi Compassi d’Oro e qui presente anche con la lampada Javelot dello studio francese ODBC (Odile Decq – Benoît Cornette) disegnata per la nuovissima sede del MACRO nell’ex stabilimento Peroni di via Nizza a Roma – del patrocinio della Facoltà di Architettura “Luigi Vanvitelli” della Seconda Università degli Studi di Napoli e del BENECON SCARL, di sponsor di primissimo piano, come Samsung che ha fornito i monitor, People & Projects che ha realizzato gli allestimenti in Barrisol, Momo Line per le pedane con inserti di Corian, Novelli Arredamenti per il montaggio dei corpi illuminanti e degli arredi, MUVA (Museo Virtuale di Architettura) che ha curato la realizzazione dei prodotti multimediali.

Ma indispensabile è stato anche il contributo di colleghe universitarie e di giovani collaboratori, della direzione di Villa Rufolo e di tutto lo straordinario staff di questo festival a cui si deve, nella forma data da Domenico De Masi, la capacità di attrarre soggetti così disparati, di coinvolgere volontà e di produrre passione, solo per Ravello. Se non è follia questa!

Claudio Gambardella